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Museomixare al Musée Royal de Mariemont

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Perché partecipare a Museomix? Questa domanda me l’ha posta un mio studente quando gli ho raccontato l’esperienza (“ma lei, perché ci è andata?”). In fondo, io stessa non me l’ero posta con tanta chiarezza. Noi appassionati di musei e di partecipazione – lavoro per ABCittà da tanti anni – andiamo per definizione, appena possibile: per curiosità, per bisogno di vedere che cosa si fa altrove e come lo si fa, per desiderio di continuare a formarci. Quando la mia collega Chiara Ciaccheri mi ha segnalato la call di Museomix, dunque, non ci ho pensato due volte.

Ed eccomi qui, a Morlanweltz, nel Belgio vallone. Un parco enorme, pieno di scoiattoli e oche. Al centro, un museo anni Settanta in cemento e vetro con una splendida collezione di arte e libri antichi. Con me, una cinquantina di mixeurs, direi fra i 25 e i 45 anni, per lo più provenienti da Belgio e Francia (io l’unica italiana, le altre due non-francofone, una ragazza greca e una rumena, vivono a Bruxelles).

Dopo una visita al museo, le squadre si compongono, con una facilitazione a base di post-it, intorno ai temi proposti: sensi, posizionarsi nel museo, dentro/fuori, invisibile, gioco.

Io capito nel gruppo dei sensi: non l’ho scelto, ma mi ci ritrovo perché eravamo in troppi a voler stare nel gruppo dell’invisibile. Il tema mi spaventa un po’ perché, se non ben governato, mi pare a rischio di infantilismo (toccare, annusare a tutti i costi…); decido comunque di stare al gioco. Iniziamo a progettare, a partire da un brainstorming, sul tema dell’olfatto, appoggiandoci alla collezione di flaconi di profumo. Ma quando, alla prima plenaria, presentiamo il progetto, siamo noi stessi poco convinti; e l’assemblea ci restituisce più dubbi che certezze.

Si cambia. Lavoriamo ora sui sensi a partire dal sesto: quanti sensi hai? Come li chiami? Come li usi? Ci “appoggiamo” a una statua marmorea di un guerriero: un’opera che ha colpito tutti, anche perché è un corpo amputato, vissuto, sofferto, che invita a un immediato esercizio ricostruttivo. Ecco il sesto senso. Costruiamo delle “isole”, tutto intorno all’opera, entro cui svolgere esperienze legate ad alcune domande. Un dispositivo di riconoscimento vocale permette di tradurre in tempo reale le parole pronunciate al microfono, legate al nostro tema, in una scritta sinuosa, che “veste” la statua. Tutto con un po’ di ironia.

La collaborazione della conservatrice è fondamentale: sta con noi, si fa spiegare meglio, sposa il progetto, ci dà ulteriori spunti (un discorso indimenticabile sul ruolo dello sguardo nella statuaria classica). Questo lavoro gomito a gomito è per me impagabile, ed è uno dei passaggi più importanti, e anche emozionanti.

Presentiamo la proposta, e stavolta ne usciamo contenti. È difficile stare su quel palco con tanti “colleghi” di fronte; difficile anche difendere le proprie intuizioni in un’altra lingua. Ma Museomix è uno spazio di negoziazione, è un processo di progettazione collettiva, dunque capire e farsi capire è fondamentale: e alla fine tutto scorre fluido. Non c’è rivalità, non c’è ansia da competizione. Solo, il tempo a disposizione è davvero poco.

Il nostro gruppo, infatti, avendo cambiato progetto in corso d’opera, non riesce ad avvalersi appieno della incredibile strumentazione del fab-lab e del tech-lab: troppe stampe 3D in coda, troppi tagli laser prenotati prima di noi. Dunque dipingiamo dei paraventi con lo spray, ritagliamo, ci alleiamo con il falegname che ci costruisce, seduta stante, dei piedistalli. Va bene così. La componente tecnologica è affidata al dispositivo di riconoscimento vocale collegato a un proiettore: in fondo relativamente semplice, anche se il wi-fi nella sala ogni tanto non funziona e bisogna aspettare che torni il segnale.

La domenica mattina allestiamo, scriviamo gli ultimi testi, mentre Aline, la comunicatrice, tweetta e scrive post sui social media e Morgane, la grafica, segue la stampa dei pannelli. Marion, la facilitatrice, periodicamente ci costringe a fermarci e scrivere liste di priorità, cose da fare, compiti: il processo è faticoso ma necessario. Siamo molto diversi fra noi (un giovane ingegnere, una curatrice di un museo di arte contemporanea da poco tornata dalla Tailandia, una mediatrice del museo di Mariemont, una neolaureata in storia dell’arte, una grafica che si definisce “cinica”, io che ho il ruolo di mediatrice e lo faccio da tanti anni, con tutti gli automatismi del caso; e ci manca il maker!), ma nonostante qualche intoppo il clima è davvero bello.

Nel primo pomeriggio il crash-test (ovvero la simulazione), alla presenza del personale del museo, va bene. Siamo sollevati. Guardando le fotografie, vedo che tutti sorridono.

Quando arrivano i visitatori ci accorgiamo che l’opera è molto amata, che c’è già una curiosità diffusa. I bambini affollano la postazione del riconoscimento vocale; gli adulti ascoltano i brani che abbiamo registrato e toccano (con i guanti, chiaro) l’opera, sperimentandone le asperità e le morbidezze. Si parla di restauro e di de-restauro, di corpi che hanno attraversato epoche e paesi diversi, della testa da mutante (come ci dice una ragazza californiana che lavora negli studios di Lucas, è una perfetta testa alla Star Wars).

Tornata a casa rifletto sul senso di un’esperienza così densa, a tratti faticosa ma anche molto interessante. Mi è sembrato prezioso il lavoro di squadra, il tono sempre lieve grazie alla presenza dell’équipe di Museomix che aiuta e fluidifica i passaggi, la collaborazione solidale di conservatori e educatori del museo (forse l’elemento di forza, certamente un requisito indispensabile). Si chiude, la domenica sera, senza sapere che ne sarà del “proprio” prototipo. Resta la domanda. Non per ansia di controllo, ma perché davvero si vorrebbe capire se funziona, come viene valutato sul medio periodo dal museo, se ha un futuro. Di questo tema, e di quello della “proprietà intellettuale” si è discusso qualche giorno dopo fra noi museumixeurs italiani, ed è una riflessione preziosa.

Un Museomix in Italia? Sarebbe bello capire come adattarlo ai nostri musei e alle loro potenzialità, ma anche fragilità. Le comunità dei makers, dei programmatori, dei creativi hanno molto da dire al museo, e viceversa.

Mi piace pensare che Museomix Italia possa trovare una via sostenibile, intelligente, personale, magari sorretta da momenti di riflessione “strutturati”. Se è vero che people make museums, non bastano tre giorni per dire di aver “fatto il museo”. Non uno sciame di entusiasti che appare e scompare, tipo rave party, ma una comunità di persone davvero interessate alle sorti del museo e disponibili a investire in una riflessione di lungo corso. Con allegria, leggerezza, creatività, certo: proprio come è nello spirito di Museomix.

Anna Chiara Cimoli

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